Codice Penale art. 59 - Circostanze non conosciute o erroneamente supposte.Circostanze non conosciute o erroneamente supposte. [I]. Le circostanze che attenuano [62, 62-bis] o escludono [50-54, 85, 308, 309, 376, 384, 418 3, 463, 649] la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti [114, 118, 119] (1). [II]. Le circostanze che aggravano [61, 111, 112, 113] la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa [118] (1). [III]. Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono valutate contro o a favore di lui [60]. [IV]. Se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena [50-54], queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo [43]. (1) Commi così sostituiti dall'art. 1, l. 7 febbraio 1990, n. 19, all'originario comma 1 che recitava: «Salvo che la legge disponga altrimenti, le circostanze che aggravano ovvero attenuano o escludono la pena sono valutate, rispettivamente, a carico o a favore dell'agente, anche se da lui non conosciute, o da lui per errore ritenute inesistenti». InquadramentoDelle circostanze (da circum stat), attenuanti o aggravanti, la dottrina suole dare la seguente definizione «sono elementi accidentali, accessori del reato. Come tali non sono necessari per la sua esistenza ma incidono sulla sua gravità o rilevano come indici della capacità a delinquere del soggetto, comportando una modificazione della pena. La loro presenza trasforma il reato semplice in reato circostanziato aggravato o attenuato» (Mantovani, PG 1979, 341): la pena, quindi, ove siano ritenute sussistenti dal giudice, può essere modificata o «in termini quantitativi, sotto forma di modifica proporzionale della pena edittale (aumento o diminuzione, di norma fino ad un termo, della pena prevista per il reato base), o in senso qualitativo (ad esempio, reclusione in luogo della multa, o viceversa» (Fiandaca-Musco, PG, 433). La ratio delle circostanze «va ricercata in quella continua aspirazione del diritto penale a rendere il più aderente possibile la valutazione legale e a meglio adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti: cioè ad una sempre maggiore individualizzazione dell'illecito penale e della responsabilità» (Mantovani, PG 1979, 342). Stante il principio di tassatività, le circostanze sono esclusivamente quelle previste dal legislatore e possono essere classificate secondo la seguente tipologia: a) circostanze attenuanti o aggravanti comuni, in quanto applicabili, potenzialmente, ad una serie indefinita di reati (artt. 61, 62, 112, 114); b) circostanze speciali, perché si applicano solo a determinati reati (es. artt. 625, 628, 576, 577); c) circostanze oggettive e soggettive (art. 70 c.p.); d) circostanze indefinite o generiche sia attenuanti (es. artt. 62-bis, 311, 648 comma 2) che aggravanti (sono quelle che, normalmente, vengono introdotte dalla legge con locuzione del tipo “nei casi più gravi”: es. art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990; art. 4 l. cost. n. 1/1989): in relazione alle aggravanti indefinite, la dottrina ha sollevato dubbi di costituzionalità ritenendo violato il principio di tassatività ex art. 25, comma 2, Cost. (Fiandaca-Musco, PG, 437; Romano, 639; Mantovani, PG 1979, 343). Alla stregua della caratteristica fondamentale delle circostanze (idoneità a variare la pena in diminuzione o in aumento) la dottrina (Romano, 633; Mantovani, PG, 342) è concorde nel ritenere che non vanno considerate circostanze quelle che escludono la pena e, quindi, non si limitano a variarla (art. 59, commi 1-3, c.p.) o quelle che indicano i criteri per la valutazione della gravità del reato (art. 133 c.p.): sono, invece, circostanze, quelle di cui agli art. 98, comma 1, e 99. Sotto il profilo processuale va rammentato che, mentre il giudice deve, all'esito del dibattimento, riconoscere e tenere conto delle circostanze attenuanti che l'istruttoria ha evidenziato, al contrario, le circostanze aggravanti, stante il combinato disposto degli artt. 517-521 c.p.p., possono essere tenute in considerazione solo ove il Pubblico Ministero abbia provveduto a contestarle. Quanto appena detto, consente, ora, di illustrare la struttura dell'art. 59 in relazione alla quale va osservato che, nonostante la rubrica, s'intitoli “circostanze non conosciute o erroneamente supposte”, in realtà, l'art. 59 disciplina il regime dell'imputazione di due istituti completamente diversi: a) quello delle circostanze vere e proprie (commi 1-2-3); b) quello relativo alle esclusioni della pena (1-4 commi) ossia quelle norme che prevedono situazioni che, ove si verifichino, escludono completamente la punibilità. Il commento che segue, quindi, è dedicato, separatamente, prima alle circostanze e, poi, alle cause di non punibilità. L'imputazione delle circostanzeLa normativa relativa sia alle circostanze attenuanti che aggravanti è distribuita nei commi primo, secondo e terzo dell'art. 59. Le suddette norme prendono in esame e disciplinano la situazione dell'”agente”: quindi, del reato monosoggettivo. Il problema del se e in che termini la circostanza applicabile ad uno dei concorrenti si applichi ed estenda anche agli altri, nel caso dell'ipotesi di concorso, si deve risolvere in base al combinato disposto degli artt. 59-118, al cui commento si rinvia. Le circostanze attenuanti L'art. 59, comma 1, dispone che le circostanze che attenuano [...] la pena sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti »: ci si trova di fronte ad un'ipotesi di imputazione oggettiva (improntata al principio del favor rei) per effetto della quale «le attenuanti sia applicano per la sola presenza dei dati circostanziali descritti dalla norma senza che rilevino le rappresentazioni del soggetto: da un lato, dunque, non gli nuocerà non avere conosciuto l'attenuante o averla ritenuta inesistente, dall'altro, non gli sarà di vantaggio averla ritenuta sussistente quando in realtà non vi sia», anche se, occorre tener presente che, in alcuni casi, la specifica norma richiede ulteriori requisiti di natura soggettiva (es. artt. 62, n. 6 e 62, n. 1), sicché, in tanto l'attenuante può essere applicata in quanto l'agente abbia tenuto quella specifica condotta richiesta dalla norma (Romano); in terminis Cass. II, n. 1299/1986. L'art. 59, comma 3, stabilisce, poi, sempre in relazione alle circostanze attenuanti, che « se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze [...] attenuanti, queste non sono valutate [...] a favore di lui »: con questa norma il legislatore ha applicato il principio della irrilevanza delle circostanze putative: in tale ipotesi, il legislatore ha mantenuto ferma la regola dell'imputazione oggettiva nel senso che l'attenuante può essere riconosciuta solo se realmente esistente e non perché erroneamente ritenuta dall'agente. In pratica, l'art. 59, comma 3, quanto alle circostanze attenuanti, stabilisce la regola inversa a quella stabilita nel primo comma: quindi, «a nulla gioverà al soggetto attivo l'erroneo convincimento della sua presenza: ad es. se Tizio uccide Caio ritenendo erroneamente di essere stato provocato, gli si applicherà la fattispecie dell'omicidio comune, e non quella dell'omicidio attenuato dalla provocazione (art. 62 n. 2) » (Pagliaro). La suddetta disciplina, si differenzia, notevolmente, rispetto all'errore che cade sull'elemento costitutivo del reato, in cui si applica, ex art. 47, l'ipotesi erroneamente ritenuta sussistente dall'agente: « Tizio uccide Caio, ritenendo erroneamente che Caio consenta ad essere ucciso: si applicherà la fattispecie dell'omicidio del consenziente (art. 579) e non quella dell'omicidio comune (art. 575) » (Pagliaro). In terminis, quanto all'irrilevanza dell'errore: Cass. n. 11574/1987; Cass. I, n. 45322/2019 (in relazione alla non configurabilità dell'art. 62 n. 2 nel caso in cui la condotta criminosa venga posta in essere quale reazione a un fatto ingiusto erroneamente attribuito alla vittima, non essendo ammissibile una provocazione putativa»; Cass. n. 20443/2015; Cass. II, n. 197/2017, per le quali ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, comma 1, n. 1), non è sufficiente l'intima convinzione dell'agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l'obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività. Le circostanze aggravanti Contrariamente a quanto previsto per le circostanze attenuanti, l'art. 59, comma 1, non prevede più l'imputazione oggettiva per le circostanze aggravanti, a seguito della modifica effettuata dall'art. 1 l. n. 19/1990: fu, infatti, accolta dal legislatore l'unanime critica che ne aveva rilevato l'incompatibilità della regola dell'imputazione oggettiva delle aggravanti con il principio di colpevolezza. L'art. 59, comma 2, stabilisce che le circostanze aggravanti «sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa»: questo comma, aggiunto sempre con la cit. l. n. 19/1990, ha introdotto, quindi, per le aggravanti, il principio dell'imputazione soggettiva: «per effetto di questa nuova disciplina, dunque, il principio nulla poena sine culpa è stato legislativamente esteso anche alle circostanze che aggravano la pena: perché queste possano essere accollate occorre un coefficiente soggettivo, rispettivamente costituito o dalla loro effettiva conoscenza ovvero dalla loro colpevole ignoranza» (Fiandaca-Musco, PG, 439; Marinucci-Dolcini, Manuale,adducono il seguente esempio: «Tizio animato da odio nei confronti Caio si introduce nell'abitazione di quest'ultimo e la devasta distruggendo, tra l'altro, un rarissimo vaso antico [...] l'aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità potrà essere applicata all'agente solo se sapeva che si trattava di un vaso di particolare pregio ovvero se, pur non sapendolo, poteva rendersene conto, come chiunque altro al suo posto, perché il vaso era collocato in un ambiente ricolmo di importanti opere d'arte e anche in quel contesto aveva un particolare rilievo, essendo collocato dentro una teca di vetro illuminata con cura e visibilmente protetto da un apposito, sofisticato impianto antifurto»). Va osservato che, così come per le circostanze attenuanti (es. artt. 62 n. 6 e 62 n. 1: v. supra) anche per le circostanze aggravanti, il legislatore ha previsto ipotesi (es. art. 61 n. 2-4) in cui, per la loro applicazione, si richiede che l'agente le abbia “conosciute”. È proprio per questo motivo che, in via generale, si può affermare che l'art. 59, comma 2, prevede una forma di imputazione sia a titolo doloso (relativa alle circostanze conosciute) sia a titolo colposo (relativa alle circostanze per colpa ignorate o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa). In dottrina e nella prassi, si è posto il problema di stabilire quale sia il regime dell'imputazione delle circostanze aggravanti, ossia stabilire se le aggravanti seguano o meno il regime degli elementi costitutivi dei reati dolosi o colposi nel senso che, a seconda che accedano ad un reato doloso o colposo debbano o meno anch'esse essere sorrette dal medesimo elemento soggettivo. Per meglio focalizzare la questione, è opportuno distinguere le circostanze aggravanti antecedenti (es. art. 61 n. 3) o concomitanti (es. art. 61 n. 4) alla commissione del fatto reato, da quelle susseguenti (es. art. 61 n. 7). Quanto alle circostanze antecedenti o concomitanti, una parte della dottrina, accoglie la soluzione secondo la quale occorrerebbe differenziare il criterio d'imputazione: quindi, «l'effettiva conoscenza dell'elemento circostanziale sarebbe richiesta soltanto rispetto ad un illecito base attribuito a titolo di dolo; mentre rispetto al reato colposo (nel cui ambito l'effettiva rappresentazione non è neppure pretesa per gli elementi costitutivi essenziali) sarebbe sufficiente ai fini dell'attribuibilità dell'aggravante che il reo, pur potendola conoscere, non ne abbia conosciuto per colpa l'esistenza» (Fiandaca-Musco, PG, 440; Marinucci-Dolcini, 537). Ad opposta conclusione giunge, invece, altra parte della dottrina secondo la quale «anche se si tratta di reati dolosi, è sufficiente che il substrato di fatto, sul quale la circostanza si fonda, sia riferibile al soggetto in quella forma che potrebbe fondare una responsabilità per colpa» (Pagliaro; Mantovani; Romano, secondo il quale, con la suddetta modifica, «si è inteso adeguare l'imputazione delle aggravanti al principio costituzionale della colpevolezza, non già propriamente assimilare le aggravanti ad altrettanti elementi costitutivi dei reati cui accedono»). Condivide quest'ultima opinione la giurisprudenza la quale: - relativamente all'aggravante delle armi di cui all'art. 416-bis, commi 4-5, ritiene che sia «sufficiente che il gruppo o i singoli aderenti abbiano la disponibilità di armi, per il conseguimento dei fini del sodalizio, perché detta aggravante, di natura oggettiva, sia configurabile a carico di ogni partecipe il quale sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati, o lo ignori per colpa, non sussistendo — attesa l'ampia formulazione dell'art.59, comma 2, introdotto dalla l. n. 19/1990 — logica incompatibilità tra l'imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione»: ex plurimis Cass. n. 9958/1997; Cass. n. 1703/2013; Cass. n. 5294/2014; Cass. VI, n. 32373/2019;Cass. n. 44667/2013 (in relazione all'aggravante dell'associazione armata prevista dal comma quarto dell'art. 74 d.P.R. n. 309/1990); - relativamente all'aggravante ex art. 416-bis, comma 6, c.p. ha ritenuto che ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale, sicché essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa: Cass. S.U., n. 25191/2014; - relativamente all'aggravante di cui art. 416-bis.1 — integrata dalla finalità di agevolare l'associazione di tipo mafioso, ritenuta di natura soggettiva: Cass. S.U.n. 8545/2020 — ritiene che sia sufficiente che il reo abbia agito al fine di agevolare l'attività dell'associazione criminale, perché detta aggravante, sia valutabile a carico del reo se da questi conosciuta o ignorata per colpa o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa, ex art. 59, comma 2: ex plurimis Cass. II, n. 13707/2016; Cass. III, n. 25353/2015; Cass. II, n. 51424/2013; - relativamente alla circostanza aggravante dell'ingente quantità di sostanze stupefacenti, di cui all'art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 — di natura oggettiva — ritiene sufficiente l'accertamento, ai sensi dell'art. 59, comma 2, c.p., che la stessa sia dall'agente conosciuta, ovvero ignorata per colpa (da verificare secondo il canone della prevedibilità in concretò) o ritenuta inesistente per errore dovuto a colpa: Cass. n. 13087/2014; Cass. n. 14295/2014; Cass. IV, n. 1351/2020; Cass. IV, n. 18049/2022. Quanto, infine, alle circostanze susseguenti alla condotta (per le quali, differentemente da quelle antecedenti o concomitanti, potrebbe ritenersi non configurabile l'imputazione a titolo di “conoscenza” e, quindi, di dolo, proprio perché, essendo successive al momento consumativo l'agente non avrebbe potuto prevederle in anticipo: in tal senso, Antolisei, PG, 2000, 466, che argomenta dalla circostanza che la nuova formulazione non contiene riferimenti ad atteggiamenti psicologici rivolti al futuro), la dottrina prevalente le ha, in realtà, ricondotte pur sempre nell'ambito della colpa che «dovrà essere riferita non tanto all'ignorare tale accadimento o al ritenerlo per errore inesistente, quanto al non averlo previsto o all'avere erroneamente previsto che non si sarebbe verificato» (Pagliaro , 319; Romano). Su tale linea si è posta anche la giurisprudenza secondo la quale il nuovo sistema di valutazione delle circostanze aggravanti, introdotto dall'art. 1 della legge 7 febbraio 1990 n. 19, che ha modificato il disposto dell'art. 59, riguarda tutte le circostanze aggravanti e quindi non solo quelle antecedenti o contemporanee alla condotta dell'agente, ma anche quelle successive. Peraltro, atteso che grammaticalmente si può parlare di «conoscenza» o di «ignoranza per colpa» in relazione a dato già esistente e non a quello che viene ad essere integrato in un momento successivo alla condotta, deve ritenersi che, in relazione alle circostanze aggravanti successive alla condotta, la «conoscenza» o «ignoranza per colpa» significhino «previsione» o «prevedibilità» del fatto-circostanza aggravante: Cass. V, n. 3952/1992; Cass. n. 18490/2012 (in relazione alle circostanze aggravanti di cui all'art. 583); Cass. VI, n. 12530/1999 (in relazione all'aggravante di cui all'art. 295, comma 2 lett. b, d.P.R. n. 43/1973); Cass. VI, n. 52321/2016 (in relazione l'aggravante della transnazionalità di cui all'art. 4, l. 16 marzo 2006, n. 146). Si è posto, infine, in dottrina la questione di stabilire se ai reati aggravati dall'evento si applichi o meno la normativa in esame: sul punto si rinvia alla trattazione relativa ai suddetti reati. In realtà, in considerazione sia della diversa configurazione che assumono i suddetti reati, che non consente la loro riconducibilità sotto un unico schema dogmatico (reati a consumazione anticipata in cui l'evento ulteriore dev'essere voluto: artt. 243, comma 2; 386, comma 2; reati in cui l'evento ulteriore prescinde da qualsiasi atteggiamento volitivo dell'agente: art. 368, comma 3; reati in cui l'evento ulteriore, di natura preterintenzionale non dev'essere né voluto né rappresentato, perché altrimenti sarebbe integrata una diversa fattispecie di reato: art. 572) sia della circostanza che, in linea di principio, il codice sembra orientato all'inquadramento dell'evento come elemento costitutivo di autonome figure delittuose (Marinucci-Dolcini, 532), parte della dottrina ritiene che la disciplina dell'art. 59, comma 2, non sia compatibile con quella dei reati aggravati dall'evento (contra: Fiandaca-Musco, PG, 690). La giurisprudenza, quanto alla suddetta tipologia di reati, ritiene, ad es. in relazione all'art. 586 che in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte dell'assuntore di sostanza stupefacente è imputabile alla responsabilità del cedente sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta di cessione) e con prevedibilità ed evitabilità dell'evento, da valutarsi alla stregua dell'agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall'agente reale: Cass., S.U., n. 22676/2009 (ivi ai §§ successivi un'ampia ricostruzione della problematica relativa alla natura e l'ambito della responsabilità prevista dall'art. 586); Cass. , n. 44492/2009 (in relazione all'art. 572): è stata, quindi, disattesa la precedente tesi dell'imputazione oggettiva e cioè dell'evento ulteriore imputato sulla base del mero nesso di causalità ed accolta la tesi dell'imputazione a titolo di colpevolezza secondo il criterio della previsione o prevedibilità proprio in conformità al nuovo regime delle aggravanti di cui all'art. 59, comma 2. È, poi, ovvio, che la problematica in esame, si applica solo ai casi in cui ci si trovi di fronte ad una circostanza aggravante, il che non è sempre pacifico: Cass. IV, n. 10048/1993 (nonché, ex plurimis Cass., IV n. 15551/2007; Cass., IV n. 35805/2011) ha ritenuto che poiché la disposizione di cui all'art. 589, comma 3, in caso di morte di più persone, non prevede una circostanza aggravante ma un'ipotesi di concorso formale di più reati di omicidio colposo, unificati semplicemente ai fini della pena, sono sufficienti per rispondere di tutte le morti, e in conseguenza del corrispondente reato complesso, la consapevolezza e la volontà della condotta illecita e la prevedibilità dell'evento rispetto alle persone coinvolte. Non è, pertanto, invocabile la regola di cui all'art. 59, comma 2; Cass. I, n. 20370/2006 ritiene che «Il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro è un delitto, doloso, di pericolo, ove il pericolo consiste nella verificazione, in conseguenza della condotta di rimozione o di omissione, del disastro o dell'infortunio, che costituisce, secondo quanto previsto dal secondo comma dell'art. 437,una circostanza aggravante»; contra: Cass. IV, n. 10048/1993 che, sul diverso presupposto che l'art. 437, comma 2 c.p. non prevede una circostanza aggravante, ha ritenuto inapplicabile l'art. 59, comma 2. Infine, l'art. 59 comma 3, prevede, anche per le circostanze aggravanti, il principio della irrilevanza delle circostanze putative la cui normativa è identica a quella delle circostanze attenuanti (supra). Le circostanze di esclusione della penaLa disciplina applicabile alle cause di esclusione della pena, è prevista ai commi 1 e 4 dell'art. 59. Preliminarmente occorre chiarire quali istituti giuridici il legislatore ha inteso ricomprendere nell'atecnica locuzione di “circostanze di esclusione della pena”. Sul punto si è specificato che «la stessa Relazione ministeriale al progetto definitivo di codice penale [...] osserva che, a rigore, alle “circostanze che escludono il reato” conviene meglio la denominazione di “cause”. La ragione dell'uso nel codice della denominazione “circostanze”, comune alle circostanze in senso tecnico (aggravanti ed attenuanti), riposa, come più volte è stato rilevato, sulla convenienza di dettare una sola volta la distinzione tra “circostanze” soggettive e “circostanze” oggettive (art. 70), applicabile, agli effetti del concorso di persone nel reato, tanto alle circostanze in senso tecnico (art. 118) quanto alle cause di non punibilità (art. 119)» (Vassalli, 610, nt 4). È stato, quindi, rilevato che la locuzione «circostanze di esclusione della pena» (ripresa anche nell'art. 119 c.p.), il codice ha inteso usarla «come sinonimo dell'espressione «cause di non punibilità» e contempla tutta una serie di «casi di non punibilità», ora sotto questa esplicita intitolazione (cfr. art. 308, 309, 384, 398, 463, 561, ecc.) e ora prevedendo codesta generica «non punibilità» per tutta una serie di ipotesi (art. 45, 46, 47, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 242, 307, 308, 309, 371, 374, 376, 384, 387, 398, 418, 463, 530, 561, 587, 596, 598, 599, 627, 638, 649, 655), che la dottrina e la giurisprudenza riconducono poi variamente alle categorie più specifiche delle cause di esclusione del fatto o della tipicità, alle cause di giustificazione, alle cause di esclusione della colpevolezza, alle cause infine di esclusione della punibilità in senso stretto» (Vassalli, 610). All'interno di tale vasta tipologia, la dottrina (Romano, 652 ss; Fiandaca-Musco, 268), ha, però, individuato le seguenti tre categorie: a) cause di giustificazione in senso stretto, ossia quelle cause che elidono l'antigiuridicità del fatto rendendolo lecito: scriminanti generali (artt. 50-54) e scriminanti speciali come ad es. la reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale ex art. 393-bis c.p.; art. 599, comma 2. b) cause scusanti o di esclusione della colpevolezza: rientrano in tale categoria «tutte le situazioni nelle quali il soggetto agisce sotto la pressione di circostanze psicologicamente coartanti che rendono difficilmente esigibile un comportamento diverso conforme al diritto, o, comunque, nelle quali egli agisce in difetto del richiesto elemento soggettivo» (Fiandaca-Musco, 268). In tali fattispecie, quindi, «il fatto resta oggettivamente illecito ma il soggetto attivo (soltanto lui in caso di concorso di persone) è scusato» (Romano). Rientrano nella suddetta categoria, ad es. le ipotesi degli artt. 307, comma 3; 418, comma 3; 384, comma 1. c) cause di esenzione della pena (o cause di non punibilità in senso stretto): «consistono in circostanze che, a differenza delle precedenti, lasciano sussistere sia l'antigiuridicità sia la colpevolezza: la loro specifica ragion d'essere consiste in valutazioni di opportunità circa la necessità o la meritevolezza di pena, avuto anche riguardo all'esigenza di salvaguardare contro interessi che risulterebbero altrimenti lesi da un'applicazione di pena nel caso concreto» (Fiandaca-Musco, PG). Esempi di tale categoria si rinvengono negli artt. 649, 308, 309, 376, 599 comma 1. L'imputazione oggettiva Il comma 1 stabilisce (così come per le circostanze attenuanti) il criterio dell'imputazione oggettiva: il che significa che le suddette cause di esclusione «se presenti nella situazione concreta, escludono il reato indipendentemente da ciò che l'agente si sia rappresentato, le conoscesse o meno (meglio, conoscesse o meno i dati storico-fattuali — eventualmente qualificati in termini normativi extrapenali — che le compongono), oppure le abbia erroneamente ritenute inesistenti» (Romano, 652; Fiandaca-Musco, PG, 439; Pagliaro, 319): la norma in esame, quindi, si applica indipendentemente dall'atteggiamento psicologico dell'agente. La regola di cui al primo comma, sicuramente si applica alle cause di giustificazione in senso stretto. Si ritiene che l'art. 59 comma 1 c.p. si applichi anche alle cause di non punibilità in senso stretto «essendo collegate a ragioni oggettive di opportunità politico criminale e svincolate da momenti di conoscenza o rappresentazione soggettiva dell'agente: ad es., se A ruba a suo padre B, si applicherà l'art. 649 comma 1 anche se A non conosceva il rapporto di parentela con il derubato» (Romano, 653). Al contrario, sempre secondo il suddetto autore, la norma in commento, non si applica alle cause scusanti o di esclusione della colpevolezza. L'autore giunge alla suddetta conclusione dopo avere focalizzato il diverso modo di operare delle cause di giustificazione e delle scusanti: le prime, agendo su un piano meramente oggettivo, rendono superflua qualsiasi indagine sull'elemento soggettivo (colpevolezza); le seconde, agendo sulla colpevolezza, possono esplicare i loro effetti «solo se i loro elementi costitutivi oggettivi (o meglio i dati fattuali- concreti che li compongono e relative qualificazioni normative extrapenali) sono noti all'agente [...] così, non sarà applicabile l'art. 384 se A abbia aiutato B a fuggire dopo un delitto ignorando che era suo figlio» (Romano, 656). Sotto il profilo soggettivo, mentre per le scriminati generali si richiede, come si è visto, la loro semplice sussistenza non occorrendo che l'agente se le rappresenti, parte della dottrina, quanto alle scriminanti speciali ha rilevato che «non è da escludere che la struttura particolare delle singole scriminanti possa rendere inevitabile la presa in considerazione di eventuali coefficienti soggettivi: individuare quando ciò avvenga è compito affidato all'interprete. Casi, nei quali la legge fa dipendere la configurabilità della causa di giustificazione dalla presenza di stati psicologici, sono per lo più individuabili nell'ambito delle scriminanti speciali, cioè applicabili soltanto a talune figure di reato: si pensi ad es. alla scriminante della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale» (Fiandaca-Musco, PG, 271). Le circostanze di esclusione della pena putative Il comma 4 regola, invece, l'ipotesi delle cause di esclusione putative e detta due norme che sono del tutto differenti rispetto alla disciplina delle circostanze putative di cui al comma 3: a) le cause di esclusione della pena erroneamente ritenute esistenti, sono sempre valutate a favore dell'agente (art. 59, comma 4, prima parte) b) tuttavia, nel caso in cui l'errore sia determinato da colpa, l'agente è punito per il diverso delitto colposo sempre che la legge lo preveda come tale (art. 59, comma 4, seconda parte). La norma di cui all'art. 59, comma 4, prima parte , prevede un errore di fatto: «l'erronea supposizione deve avere per oggetto una situazione di fatto tal che se veramente vi fosse nella realtà configurerebbe una scriminante effettivamente prevista dall'ordinamento» (Romano, 654; Marinucci-Dolcini, 331; Antolisei, PG, 1974, 301). In primo luogo, sono astrattamente pensabili tre tipi di erronea supposizione dell'esistenza di una causa di giustificazione: l'agente i) se ne può figurare una non contemplata dall'ordinamento; ii) se la può erroneamente immaginare con limiti più ampi di quelli entro cui è prevista; e iii) può erroneamente supporre l'esistenza nella realtà degli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall'ordinamento. I primi due tipi di errore, incidendo sulla legge penale, sono senz'altro irrilevanti, ai sensi dell'art. 5. In linea di principio, è perciò rilevante solo l'erronea supposizione della esistenza, nella realtà, degli estremi di una fattispecie descritta da una norma che configura una causa di giustificazione: estremi che possono essere tanto di tipo «descrittivo» quanto di tipo «normativo». I primi non sollevano problemi: per un errore di fatto il dottore suppone manifestato il consenso all'operazione; l'agente di polizia giudiziaria arresta per uno scambio di persona il supposto autore di un delitto; il passante si difende da un altro passante che di notte scambia per un aggressore; l'aggredito crede ancora necessaria una difesa contro chi non si avvede essere diventato ormai inoffensivo; ecc. ecc. [....] Problemi, non ancora chiariti, solleva invece l'errore sugli elementi normativi di una scriminante. È indiscusso che rileva l'errore sulla situazione di fatto alla base dell'elemento normativo: così, ad es. rileva l'errore sull'«ingiustizia» dell'offesa, nella legittima difesa, quando l'agente si oppone con una percossa all'uso della sua macchina, perché non sa che è il solo mezzo per portare in ospedale un ferito grave. Nei casi in cui invece l'agente si rappresenta esattamente la situazione di fatto, e perviene alla conclusione che è presente un elemento normativo esclusivamente sulla base di un'inesatta valutazione, allora bisogna distinguere, per evitare che l'errore incida sui limiti della causa di giustificazione, restando perciò irrilevante ai sensi dell'art. 5 c.p. Vi sono elementi normativi che contengono una valutazione globale del fatto come lecito: ad esempio, la «proporzione» tra fatto e pericolo nella legittima difesa e nello stato di necessità. Conformemente a quanto già elaborato in altra sede, questi elementi normativi andrebbero smembrati, se possibile, separando ciò che fonda la conformità al diritto del fatto, con il giudizio stesso di conformità al diritto» (Marinucci, § 12; Pagliaro, 284, , dopo avere affermato che la norma si riferisce solo all'errore di fatto o all'errore su legge extrapenale, esclude che si possa applicare all'errore di diritto «perché altrimenti si vuoterebbe l'art. 5 c.p. di gran parte del suo contenuto normativo — si dovrebbe escludere la punibilità, ad es. nel caso che Tizio, per errore evitabile, ritenesse che la provocazione escluda il reato — e si creerebbe una ingiustificata differenza rispetto all'errore sugli elementi positivi della condotta illecita che ha rilievo soltanto se errore di fatto o su norma extrapenale: art. 47»; Fiandaca-Musco, PG, 272, ribadiscono che l'errore, «per spiegare efficacia scusante deve investire: 1) i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione stessa: ad es. Tizio, a causa di un errore di percezione crede di essere aggredito da Caio e reagisce difendendosi; 2) una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificante. È invece da escludere la rilevanza esimente di un errore di diritto [...]»; Romano, 656). La norma in esame «costituisce il frutto di un'estensione alle scriminanti della disciplina generale dell'errore di fatto enunciata nell'art. 47 [...] in entrambi i casi, infatti, il soggetto non sa bene quel che fa, non si rappresenta un fatto punibile, ma si rappresenta al contrario un diverso fatto del tutto lecito» (Fiandaca-Musco, 272). Larga parte della dottrina (Romano, 655), quanto al campo d'applicazione della norma in commento, ritiene che la medesima — richiedendo nell'agente un processo volitivo ancorato all'errore con esclusione, pertanto, dell'elemento psicologico del dolo — mentre si applichi, sicuramente, alle cause di giustificazione in senso stretto nonché alle cause scusanti, al contrario, non sia applicabile anche alle cause di non punibilità in senso stretto, in quanto le medesime lasciano sussistere sia l'antigiuridicità sia la colpevolezza: «se A ruba a B credendo di essere suo figlio, non si valuta a suo favore il rapporto di parentela putativo e non si applica l'art. 649, comma 1: A, infatti, malgrado l'errore in cui versa, ha il dolo del furto. Soluzione diversa, invece, se C aiuta D a fuggire dopo un delitto, ritenendo, erroneamente, che D sia suo figlio: per l'art. 59 comma 4 trova applicazione l'art. 384 in quanto il processo di motivazione considerato scusante dalla legge è qui ugualmente presente, come se D fosse realmente il figlio di C». La differenza fra la norma in esame e quella di cui all'art. 55 c.p. consiste nel fatto che, mentre l'art. 59, comma 4, prima parte «la causa di giustificazione non esiste nella realtà ma soltanto nella mente di chi agisce» nell'art. 55 «la scriminante di fatto esiste ma l'agente supera colposamente i limiti del comportamento consentito» (Fiandaca-Musco, PG, 274). Sul punto Cass. I, n. 298/1991, quanto ai rapporti fra gli artt. 59 e 55, ha ritenuto che «La previsione normativa dell'art. 55 c.p. disciplina, quelle situazioni particolari nelle quali, per colpa, determinata da imperizia negligenza o imprudenza, si superano i limiti oggettivi di scriminanti effettivamente esistenti, nel senso che il comportamento dell'agente, fino ad un certo punto del suo svolgimento, è sorretto da una causa di giustificazione realmente esistente; mentre in una fase successiva è accompagnato dalla mera putatività di un elemento scriminante, della quale, vengono in realtà ecceduti i limiti. Accanto a questa figura di eccesso colposo — che costituisce un eccesso modale — è tuttavia possibile parlare di eccesso anche quando questo si innesta su di una situazione di scriminante erroneamente supposta: l'agente ritiene per errore incolpevole che esista una scriminante — che nella realtà non esiste — ma nell'agire trascende colposamente i limiti consentiti dalla disposizione. Tale forma di eccesso, che esula dalla disciplina dell'art. 55 c.p., è riconducibile alla figura generale dell'art. 59 terzo comma seconda parte, che implicitamente prevede anche una forma di eccesso: (l'agente, cioè, opera nella erronea ma giustificata convinzione della esistenza di una scriminante, che nella realtà, non sussiste (e che sarebbe quindi coperta dalla scriminante positiva) ma, per colpa, non si rappresenti o non osservi i limiti della scriminante stessa e, concretamente li trascenda». L'art. 59 comma 4 seconda parte dispone che se l'errore sulle circostanze che escludono la pena è determinato da colpa «la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo»: ad es. «Tizio, di notte, viene avvicinato da un passante che gli vuole chiedere un'informazione; troppo precipitosamente lo scambia per un bandito e, credendosi aggredito, lo uccide. Poiché l'errore è determinato da colpa e l'omicidio colposo è previsto dalla legge come delitto (art. 589 c.p.), Tizio risponderà di omicidio colposo» (Pagliaro, 285). La dottrina maggioritaria (Fiandaca-Musco, PG, 273; Romano, 656; Pagliaro, 285) ritiene che la norma in esame prevede un delitto strutturalmente colposo e non un delitto doloso equiparato a quello colposo solo quoad poenam. Anche questa ipotesi, così come quella precedente, si pone in perfetta simmetria con l'art. 47/1 seconda parte c.p.: di conseguenza, poiché per quest'ultima norma si ritiene ammissibile l'estensione analogica anche alle contravvenzioni, lo stesso deve valere per la norma in commento sebbene menzioni soltanto i delitti (Fiandaca-Musco, PG, 274; Romano,656; Pagliaro, 285). Cass. n. 14198/1977 ha confermato la suddetta linea interpretativa, statuendo che l'art 59 comma 4, seconda parte, «pur limitato, nella sua espressione letterale, alle fattispecie delittuose, è da estendere anche a quelle contravvenzionali, per la cui punibilità, nel caso di errore inescusabile, essendo in linea di principio (e salve, quindi, le ipotesi di contravvenzioni essenzialmente dolose) sufficiente, sul piano dell'elemento psicologico, la sola colpa, non appariva necessaria la menzione del requisito dell'espressa previsione normativa dell'ipotesi colposa»).
La posizione della giurisprudenza
Per comprendere appieno la posizione della giurisprudenza in ordine all'operatività delle “circostanze di esclusione della pena” di cui all'art. 59, commi 1-4, c.p. è necessario focalizzare l'attenzione su principi consolidati che vengono ripetuti in modo ormai tralaticio: a) le cause di giustificazione non ineriscono alla struttura del reato, configurandosi come elementi estrinseci per la cui operatività occorre la prova piena. Ne deriva che, quando tale prova non emerga dagli atti, spetta a chi allega la scriminante di dimostrarne la sussistenza (ex plurimis Cass. I, n. 8828/1983; Cass. V, n. 12881/1986; Cass. I, n. 1087/1988), fermo restando che il dubbio sulla sua esistenza, per prova insufficiente o per un mero principio di prova, e quindi al di fuori di casi in cui la causa di giustificazione sia soltanto allegata dalla parte e non provata, comporta l'assoluzione dell'imputato (Cass. I, n. 20867/2010); b) l'allegazione da parte dell'imputato dell'erronea supposizione di una causa di giustificazione deve basarsi non già su un mero criterio soggettivo, riferito al solo stato d'animo dell'agente, bensì su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato di trovarsi in tale stato: ex plurimis Cass. VI, n. 18711/2012; c) In tema di cause di giustificazione, lo straniero non può invocare, neppure in forma putativa, una scriminante correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare - in linea con l'art. 3 Cost. - la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica»: Cass. III, n. 8996/2020 (fattispecie in tema di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali). È, quindi, intuitivo che, stretta fra queste rigorose regole, la possibilità che la tesi difensiva in ordine alla putatività della scriminate sia accolta, è molto difficile: « questo atteggiamento rigoristico si spiega con la preoccupazione, a carattere generalpreventivo e, al tempo stesso, probatorio, di evitare che l'errore sulle scriminanti possa essere facilmente accampato come falsa e comoda scusa per eludere ingiustificatamente la responsabilità penale » (Fiandaca-Musco, PG, 273). Ecco, quindi, qui di seguito, una rassegna delle più significative massime enunciate dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alle varie scriminanti. 1) Consenso dell'avente diritto: la suddetta esimente è stata esclusa: nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un in errore inescusabile sulla legge penale (Cass. III, n. 17210/2011); in tema di lesioni personali, non può in ogni caso operare, come causa giustificatrice, il consenso dell'avente diritto, che va espresso da parte del paziente a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni del trattamento al quale intende sottoporsi, quando l'azione delittuosa sia diretta a provocare ferite nel corpo della persona offesa non preventivamente determinabili. In tal caso la prestazione di un valido consenso -quale manifestazione di un atto di disposizione del proprio corpo ex art 5 cod. civ.- rimane impedita dalla impossibilità di una completa valutazione del suo ambito di operatività (Cass. IV, n. 19378/2013; Cass. V, n. 57/1980); in una fattispecie di furto di materiale informatico prelevato dall'imputato presso discariche pubbliche (Cass. fer., n. 37118/2019); 2) Difesa legittima.; per Cass. III, n. 3257/1991, la legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente, ma è supposta dall'agente a causa di un erroneo apprezzamento dei fatti. Essa, pertanto, può configurarsi se ed in quanto l'erronea opinione della necessità di difendersi sia fondata su dati di fatto concreti, di per sé inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da giustificare, nell'animo dell'agente, la ragionevole persuasione di trovarsi in una situazione di pericolo; persuasione che peraltro deve trovare adeguata correlazione nel complesso delle circostanze oggettive in cui l'azione della difesa venga ad estrinsecarsi; Cass. I, n. 4337/2005; Cass. I, n. 3464/2010; Cass. I, n. 23977/2022. 3) Stato di necessità. Per Cass. VI, n. 436/2004, l'allegazione da parte dell'imputato dell'erronea supposizione della sussistenza dello stato di necessità (anche sotto il profilo della attualità o inevitabilità del pericolo) non può basarsi su un mero criterio soggettivo, riferito al solo stato d'animo dell'agente, ma deve essere sostenuta da dati di fatto concreti, che siano tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato di trovarsi in tale situazione; v. anche Cass. I n. 19341/2009; Cass. VI, n. 18711/2012; Cass. VI, n. 14037/2014; Cass. VI, n. 4114/2017; Cass. IV, n. 2241/2020 . 4) Diritto di cronaca. Per Cass. V, n. 7393/1996, la prova dell'errore scriminante in materia di esercizio putativo del diritto di cronaca deve vertere sul fatto, e cioè sulla verità della notizia e non sull'attendibilità della fonte di informazione, dal momento che il giornalista può essere esentato dall'avere pubblicato una notizia non vera solo con la dimostrazione di avere svolto il controllo, e non già per l'affidamento riposto in buona fede sulla fonte, per quanto possa trattarsi di un organo dello Stato: nella fattispecie, si sosteneva che l'articolo in questione si era limitato a riferire i dati di un censimento di polizia; Cass. V, n. 7008/2020; Cass. V. 3132/2019. 5) Provocazione. Secondo Cass. V, n. 13942/1986, per l'applicabilità dell'esimente della provocazione, prevista per i reati di ingiuria e di diffamazione dal comma 2 dell'art. 599, occorre che la reazione sia conseguenza di un fatto che per la sua intrinseca illegittimità o per la sua contrarietà alle norme del vivere civile abbia in sé la potenzialità di suscitare un giustificato turbamento nell'animo dell'agente. L'esimente in questione può anche configurarsi sotto il profilo della putatività, ai sensi dell'art. 59 (circostanze non conosciute o erroneamente supposte) qualora ricorra una ragionevole, anche se erronea, opinione dell'illiceità del fatto altrui, ma in tal caso si richiede che l'errore sia plausibile, ragionevole e logicamente apprezzabile»;Cass. V. n. 37950/2017. 6) Reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale. «L'art. 393-bis c.p. prevede una causa di giustificazione fondata sul diritto del cittadino di reagire all'aggressione arbitraria dei propri diritti, che può essere applicata anche nelle ipotesi putative di cui all'art. 59, comma 4, c.p., quando il soggetto abbia allegato dati concreti, suffraganti il proprio ragionevole convincimento di essersi trovato, a causa di un errore sul fatto, di fronte ad una situazione che, se effettiva, avrebbe costituito atto arbitrario del pubblico ufficiale»: Cass. VI, n. 4457/2019 (in motivazione ampia illustrazione della problematica); Cass. V, n. 45242/2021; Cass. VI, n. 25314/2021. Contra: Cass. VI, n. 3188/2017 secondo la quale «In materia di atti arbitrari del pubblico ufficiale, l'art. 393-bis c.p. (che ha sostituito l'art. 4 del d.lgs. n. 288/1944) non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59 c.p., ma dispone l'esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno: essa pertanto trova applicazione solo in rapporto ad atti che obbiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria». BibliografiaVassalli, Cause di non punibilità, in Enc. dir., VI, Milano, 1960; Marinucci, Cause di giustificazione, in Dig. d. pen., II, Torino, 1988, 130 ss.; Pagliaro, Il reato, in Trattato di diritto penale. Parte generale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, Milano, 2007. |